La meta del viaggio l’aveva decisa Marina. Quando lei e Guido si erano sposati, quattro anni prima, di soldi ne avevano davvero pochini. Tra cerimonia, bomboniere, abito, pranzo e quant’altro le loro finanze si erano completamente prosciugate. Non era il caso di fare troppi voli pindarici. In viaggio di nozze erano andati sulla Costa Azzurra, rimandando a tempi migliori la vacanza oltreoceano da sempre sognata.
Marina, nel frattempo, aveva subito iniziato a risparmiare, giorno dopo giorno, fino a ritrovarsi, dopo quattro anni, con un discreto gruzzoletto da destinare alla realizzazione del suo sogno.
Le piaceva leggere e Carlos Castaneda era tra i suoi autori preferiti. Certe descrizioni dei paesaggi allucinati delle desolate plaghe messicane e per contraltare la magia delle civiltà remote, sepolte, sotto i templi dei Maia, l’avevano totalmente affascinata.
Per questo non aveva avuto dubbi riguardo alla meta: voleva andare in Messico e precisamente nello Yucatan.
Guido si era limitato ad assentire. Quando Marina lo guardava, con quegli occhi sognanti e cominciava a raccontargli del fascino messicano, del blu profondo dell’oceano, di Tulum, Chichen Itza e Coba, anche lui si sentiva trasportare in quell’atmosfera dorata.
Alla fine, dopo aver consultato decine e decine di cataloghi, si erano decisi ed erano partiti.
Una volta sbarcati a Cancun, però, dopo averci tanto fantasticato, si erano trovati al cospetto di una specie di Rimini di lusso, dove tutto era un rincorrersi di hotel a cinque stelle, villaggi turistici all’ultima moda, negozi di souvenir e boutique.
<E’ questo il Messico?> Marina aveva guardato sconsolata il marito, che dal par suo aveva iniziato a consolarla.
<Non ti preoccupare, vedrai, questa è solo una città snaturata, molto turistica, occidentalizzata, sono convinto che prima della fine della vacanza il ‘tuo Messico’ lo scoprirai>.
Più facile a dirsi che a farsi, nel frattempo ai loro sguardi si apriva soltanto un panorama di cemento, dove era difficile persino immaginare il mare, sognavano tortillas, tapas e guacamole, ma riuscivano solo a imbattersi in puzzolenti fast food.
Dopo un paio di giorni lì ne avevano già abbastanza e avevano deciso di prendere una barca e spostarsi a Isla Mujeres. L’isola un tempo era stata rifugio dei pirati, passeggiando tra le casette minuscole e coloratissime, lavanda, ciclamino, verde oltremare, giallo sole, rosa, finalmente Marina aveva iniziato a sentirsi meglio. Quello non era ancora il ‘suo’ Messico, ma iniziava già un po’ a sentire nelle vene un friccico benefico. Le piaceva quel contrasto di colore, l’atmosfera pigra. Era allegra e speranzosa.
Da Isla Mujeres si erano trasferiti a Playa del Carmen, in quello che una volta era solo un piccolo villaggio di pescatori ed ora si presentava come un susseguirsi di avenidas perpendicolari alla 5, la principale, chiusa al traffico e parallela al mare. Tutto, ancora una volta molto turistico ma la baia era molto bella. Passeggiando con i piedi a mollo, per mano al suo Guido, Marina provava una sensazione strana. Quel paesaggio le era familiare. I colori del mare, della sabbia, la riportavano a echi di vita lontana. Le pareva di avere già visto quei luoghi, di esserci già stata.
<Per forza, ti sei sciroppata pile di cataloghi sul Messico, li hai sezionati parola per parola, immagine dopo immagine, ti sei bevuta ogni descrizione, direi che li hai interiorizzati>, Guido aveva una spiegazione per tutto.
Marina, dentro di sé, sentiva che c’era qualcosa d’altro e di più.
Il Messico ce l’aveva nelle vene, persino i sapori, gli odori, li ‘riconosceva’ e quello, dai cataloghi, non poteva averlo imparato.
Lo spagnolo, che non aveva mai studiato, le sembrava una lingua nota, riusciva a recepirne le sfumature, in pochi giorni, meno di una settimana, si esprimeva già fino a farsi capire, i lemmi che sentiva le rimanevano in mente e si aiutava con un piccolo dizionario che aveva comperato.
Adorava rimanere pigramente sulla spiaggia e lasciare vagare i pensieri. In Italia, in quel preciso momento era inverno, era partita che pioveva, il cielo era grigio, la realtà monocorde, e invece lì era estate piena, il sole sulla pelle era una carezza piacevolissima. Amava tutto di quei luoghi, i colori, i sapori, i profumi, la lingua, non avrebbe più voluto tornare a casa.
Ma i giorni passavano e c’era ancora tanto da vedere. Dopo essersi concessa un paio di giorni di totale relax sulla spiaggia, dopo avere fatto il pieno di bagni di mare, era di nuovo pronta a riprendere il viaggio.
La prima meta che si era prefissa era relativamente vicina: Tulum.
Lei e Guido avevano disdegnato le gite organizzate e avevano deciso di visitare il sito in piena libertà, per questo avevano prenotato unicamente il viaggio in pullman e per il resto contavano di arrangiarsi.
Marina aveva con sé la guida e anche un plico di fogli scaricati da internet, con tutti i consigli e le indicazioni dei viaggiatori web.
Il bus, con l’aria condizionata troppo alta, tanto che faceva quasi freddo, li aveva scaricati all’inizio di una grande strada polverosa ai cui lati si affollavano venditori di souvenir.
Tutto sembrava comunque abbastanza squallido, niente a che vedere con il castillo, visto mille volte in fotografia.
Finalmente, dopo una ventina di minuti di cammino erano arrivati alla biglietteria e poi erano entrati nel sito.
All’interno la musica cambiava totalmente, era tutto un tripudio di colori e sensazioni. Marina sentiva la testa ronzarle, le gambe le tremavano , toccava le mura, camminava tra le falesie e ad ogni passo le pareva di riconoscere un dettaglio.
<Io sono già stata qui>, disse a Guido, che la guardava sconcertato.
<Sei pallida come un cencio Marina, ti senti bene?> le chiese.
<Sì, anzi no, hai sentito quello che ti ho detto? Io sono già stata qui, adesso non è più una sensazione indistinta è una certezza>.
Il marito scosse la testa.
<Hai letto troppi libri, ci hai fantasticato su mesi interi, forse l’hai sognato, anche io ho già visto questo sito in decine di fotografie, solo che sono meno impressionabile di te>.
Marina mise il broncio.
<Tu non capisci>, disse convinta, poi lo prese per mano.
Camminava spedita, senza uno sguardo alla guida né ai cartelli esplicativi che stavano ai piedi delle pietre antiche, non faceva caso neppure ai cactus spinosi. Passava di tempio in tempio e declamava, come fosse una guida: <Questo è il tempio dedicato alla pioggia, questo alla dea madre e questo alla luna>. Non la impressionavano neppure le iguane gigantesche che spuntavano ogni tanto, con il loro profilo antico e si muovevano lente, incuranti dei turisti che le fotografavano.
Guido era sempre più perplesso, certo, non credeva a una parola di quello che Marina diceva : <io ho conosciuto questo posto in un’epoca differente, tu non hai idea, allora era tutto ancora più maestoso, nuovo e mistico>, però le fantasie della moglie lo turbavano.
Fino a prima della vacanza era sempre stata una ragazza equilibrata, con la testa sulle spalle, sognatrice sì, amava immergersi nella lettura, però anche pratica, pragmatica, realista quando la situazione lo richiedeva.
Che diavolo le stava succedendo?
Per il momento decise di non contrastarla, di fare buon viso e cattivo gioco, prima o poi, quella sorta di ‘invasamento’ le sarebbe passato, forse era meglio non darle troppo peso, minimizzare.
Dopo due ore sotto il sole cocente, finalmente il giro era finito, anche se Marina sostava ancora, a guardare l’incredibile specchio del mare che lambiva i sassi Maya.
<Direi che possiamo tornare, adesso, abbiamo visto davvero tutto e di più, è già la terza volta che rifacciamo il giro, che ne dici? Ho anche una discreta fame>.
Marina assentì ma era distratta, come soprappensiero, lo seguiva ma guardava altrove. Una volta usciti dal sito archeologico lo tirò per un braccio.
<Andiamo di qui>, disse, indicando una strada sulla sinistra.
<Ma non non è il caso, chissà dove diavolo ci porta, lascia correre>, lui tentò, ma la ragazza non lo ascoltava.
<Ti prego>, disse soltanto ed era chiaro, nonostante il tono dimesso che niente e nessuno le avrebbe fatto cambiare idea.
Guido si rassegnò ma cominciava a montargli il nervoso. La strada era poco più che un viottolo, strappato alla vegetazione selvatica.
<Ci manca solo che spunti qualche serpente>, buttò lì.
Marina aveva il terrore di qualsiasi cosa strisciasse ma neanche quella minaccia riuscì a farla tornare in sé.
Camminava spedita ed erano già venti minuti buoni.
Guido era stanco, affamato e ne aveva davvero le tasche piene.
Si fermò.
<Adesso basta Marina, poi questa strada dovremo farla anche a ritroso e non c’è niente di interessante da vedere, torniamo indietro>, disse, con un tono deciso.
Ma lei niente, <siamo quasi arrivati>, ribattè, continuando a camminare.
Matta come un cavallo. Non restava che seguirla ma più tardi, in albergo, gliene avrebbe cantate due.
A un certo punto Marina svoltò ancora a sinistra e incredibilmente, dopo un centinaio di metri, la vegetazione divenne più rada e davanti a loro si aprì il mare, di un incredibile colore turchese. Un paesaggio come quello Guido l’aveva visto soltanto sulle cartoline e le immagini delle Maldive. Palme, una spiaggia bianca, abbacinante e il mare dai colori cangianti, più al largo, l’acqua cambiava tono, forse c’era una barriera corallina.
Dio solo sa come aveva fatto Marina a sapere di quel luogo ma era di una tale bellezza che valeva la pena saltare anche il pasto per stare lì qualche ora e fare il bagno. Più avanti, giù in fondo, si vedeva qualcosa, la spiaggia si animava, c’era gente e una specie di baracca o qualcosa di simile.
<Avevo una cabanas, tanto tempo fa, proprio laggiù, sotto quelle palme>, nel frattempo Marina stava dicendo, <non avevamo acqua né luce e dormivo su un’amaca, per vivere pescavo>.
Era davvero troppo.
<Piantala Marina, adesso stai davvero esagerando, hai passato il segno, ma dico sei ammattita?>.
Lei si girò, lo guardò e i suoi occhi erano pieni di lacrime.
<Non vedevo questo posto da tanti tanti anni, ma l’ho sempre portato nel cuore>, disse, < finalmente sono tornata a casa>.
A casa?
Doveva essere un’allucinazione. Che diavolo si era bevuta Marina a colazione? Un succo di frutta fresca, chissà cosa diavolo ci avevano messo dentro .
Invece no, anche nei giorni successivi quella specie di delirio era continuato.
Per fortuna la vacanza volgeva al termine, dopo Coba e Chichen Itza, si erano regalati ancora un paio di giorni al mare e tra poche ore avrebbero ripreso il volo per l’Italia.
Marina era tristissima, Guido invece non vedeva l’ora. Quella vacanza per certi versi si era rivelata un vero e proprio incubo. Non riconosceva più sua moglie, gli sembrava diversa, una sconosciuta totale con anche qualche rotella fuori posto.
Ritrovare il quotidiano le avrebbe fatto bene, avrebbe finalmente riannodato il filo con il reale.
Neanche per idea.
Una settimana più tardi, mentre ritornava a casa dal lavoro, Guido aveva trovato la moglie attaccata al computer.
<Vieni un po’ a vedere …>, gli aveva detto , <se sono tutte fantasie mie>, poi aveva cominciato a leggere a voce alta : < Può capitare di avere la sensazione di avere già vissuto un preciso momento o di avere già visitato una città. E’ déjà vu è un termine coniato dal francese Emile Boirac, psicologo e scrittore. Secondo molte teorie il fenomeno sarebbe associato a percezioni extrasensoriali o memorie di vite passate>.
Lui si era avvicinato e Marina aveva sollevato lo sguardo verso di lui.
<Non sono pazza, vedi? Non ne sapevo niente di questo deja vu, ma di una cosa ero certa. Non mi sono inventata niente. Non so se sono riuscita a entrare nella lunghezza d’onda di qualcuno, un pescatore vissuto anni fa a Tulum, oppure se io stessa, in una vita passata sono stata quel pescatore, quello che so è che questo mi ha dato una grande pace. In un caso o nell’altro è chiaro che la nostra vita non si esaurisce con la morte e questo mi sembra fantastico, non trovi?>.
Non esattamente, Guido era ancora perplesso ma anche lui adesso voleva capire, prese la mano della moglie e con lei continuò a leggere.
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