Voglia di brivido
“Sposerò Simon Le Bon”, gridavo negli anni ottanta e ne ero pure convinta.
La mia non era una semplice infatuazione ma amore vero. Ricordo ancora quando la barca a vela di Le Bon perse il bulbo e si capovolse imprigionandolo con tutto il suo equipaggio all’interno. Alla notizia mi sentii male. Per fortuna tutto andò nel migliore dei modi. Lui si salvò ma il mio sogno naufragò ugualmente.
Simon, il mio Simon, nel frattempo si era innamorato di una splendida modella iraniana e l’aveva impalmata. I due sorridevano felici dalle copertine patinate dei giornali e io piangevo come una fontana.
Avevo diciotto anni ed ero un po’ ingenua, troppo forse.
Che speranza potevo avere di incontrare il cantante dei Duran Duran e farlo capitolare?
Nessuna, oggi lo so ma allora giuravo che non avrei mai amato nessuno come lui, mai.
Dopo il suo matrimonio con Yasmin, mio malgrado, sono dovuta scendere a più miti consigli.
Il mio ideale d’uomo, però, restava comunque un ragazzo dinamico, sportivo, con il sorriso accattivante, la zazzera bionda e lo sguardo da angelo caduto.
“Tra il dire e il fare” mi diceva la mia anziana nonna “c’è di mezzo il mare.
Infatti.
Riccardo non era né biondo né magro e non aveva certo l’aurea dell’artista.
Laureato in economia e commercio lavorava in banca, aveva gli occhiali, vestiva sempre in giacca e cravatta.
Un uomo concreto, serio, affidabile.
Così lo definì subito la mia mamma, quando glielo presentai.
Riccardo comunque era distante mille anni luce dal mio ideale.
Però a modo suo mi intrigava.
Forse perché, a differenza di tutti gli altri non mi correva dietro.
Era timido e schivo, in compagnia anche un po’ orso.
Iniziai a uscirci quasi per scommessa, perché lo ritenevo un Ufo, un oggetto non meglio identificato o se preferite da identificare.
Un rebus insomma, da sciogliere.
In un certo senso fui io a fargli la posta.
Ci uscivo già da due mesi e lui compito, sulle sue, non si lasciava mai andare.
<Non capisco se ci è o ci fa>, dicevo a Luana, la mia amica del cuore.
<Mi invita fuori a cena, al cinema e a prendere il gelato, è galante, credo di piacergli ma non esce allo scoperto. Per carità, meglio di quelli che ti saltano addosso al primo appuntamento ma lui sta esagerando, un po’ potrebbe anche sbilanciarsi, in fondo>.
<Vedrai che prima che vi spuntino i capelli bianchi un bacetto lo azzarderà>, lei scherzava.
Va bene la timidezza, va bene andarci con i piedi di piombo, ma Riccardo non sapeva proprio cosa fosse l’intraprendenza.
In parole povere fui io a fare il primo passo, o quantomeno a metterlo sulla giusta strada.
<Ma io ti piaccio? > gli chiesi una sera, eravamo in auto, dopo una serata in pizzeria con gli amici mi aveva accompagnata a casa.
<Sì tanto>, lui disse.
Gli piantai gli occhi in faccia e lui rimase fermo, forse qualche istante di troppo poi mi baciò.
Convolammo a giuste nozze un paio di anni più tardi.
A distanza di vent’anni e più osservo mio marito. Io sono al computer e lui guarda lo sport in TV .
E’ domenica pomeriggio, fuori piove. Il cielo è grigio e greve di nuvole. Rabbrividisco nella mia vestaglia.
E sbadiglio. Sono annoiata.
Certo, questa non sarebbe stata la giornata ideale per una gita fuori porta ma quantomeno una pizza e un cinema avremmo potuto rischiarli.
Il fatto è che Riccardo è un dannato pantofolaio, pigro da far schifo.
Siamo sposati ormai da più di secolo e lui non ha mai un guizzo.
Abbiamo un figlio, Daniele. In questo momento è all’estero, per motivi di studio e mio marito sembra essersi seduto ancora di più.
Adesso lo so, posso dirlo con certezza, agli esordi del nostro amore non fu la timidezza a frenare Riccardo.
Credo, anzi, potrei giurarci, fu la pigrizia.
“Tre giorni e poi mi giro” mi apostrofava mia madre, da ragazza, quando me la prendevo troppo comoda.
La mia cara mamma, ormai è morta da dieci anni ma i suoi detti, insieme a quelli di mia nonna, restano una pietra miliare.
Per girarsi a Riccardo tre giorni non bastano, ci vogliono tre mesi.
Sia chiaro, è una pasta d’uomo, un marito e un padre ideale: concreto, onesto, sincero ma anche terribilmente noioso.
Ha messo su pancetta. Una volta quanto meno amava nuotare, andava in piscina, adesso non fa più nemmeno quello.
Lo studio. Gli occhi socchiusi, le mani abbandonate in grembo, è già tanto se non russa.
Potrebbe avere 80 anni, la sua posa sarebbe più o meno la stessa.
Che voglia di urlare, di scuoterlo, di farlo saltare letteralmente dal divano, svegliarlo finalmente dal sonno letargico nel quale sembra precipitato.
L’idea nasce quasi per caso. E’ una tentazione, irresistibile.
<Stai dormendo?> chiedo, a voce alta.
Si muove appena, impercettibilmente.
Troppa fatica girare la testa a guardarmi.
<No, non dormo hai bisogno di qualcosa?> butta là, senza troppa convinzione.
<Sì credo proprio che noi si debba parlare>.
<Dimmi>, biascica, sempre senza voltarsi.
Allora non ci vedo più e sparo.
<Ho una storia con un collega d’ufficio, dura già da un anno ma adesso lui vuole di più. Mi ha chiesto di fare una scelta e io ho deciso>.
Finalmente Riccardo sembra riprendere vita.
<Cosa hai detto scusa?>, domanda.
<Ripeto per Italia e zone collegate. Sono innamorata di un mio collega. Stiamo insieme da un anno e adesso abbiamo deciso di fare il grande salto>.
<E me lo dici così?> mio marito ha un’espressione ottusa, sembra pallido, non muove nemmeno un muscolo del viso.
<In un modo o nell’altro la sostanza non cambia>.
<Credevo fossimo felici, ti sentivo una parte di me, siamo una bellissima famiglia, non posso credere a quello che dici>, balbetta.
Mi fa un po’ pena, ma ormai ho lanciato il sasso e non ho intenzione di nascondere la mano.
<Una relazione è come una pianta, bisogna innaffiarla perché viva e tu invece sei sempre perso nel tuo mondo, non ti accorgi di quanto succede intorno a te, l’importante è che non ti si disturbi>.
<Mi hai tradito e me lo comunichi anche con cattiveria. Tu non ti rendi conto di quanto male mi stai facendo>.
Abbassa le spalle, sembra davvero un uomo battuto, uno che non ha più niente da perdere.
Mi sento una strega. Forse lo sono.
<C’è una canzona di Mina, dice che una donna puoi tradirla, non dimenticarla, come fai con me>, ringhio.
<Io non ti ho mai dimenticata, tu sei sempre stata al centro dei miei pensieri, della mia vita, tu e il nostro ragazzo siete tutto il mio mondo>.
Si alza.
Per un attimo sono tentata di rimangiarmi tutto, subito, ma poi penso che non avrebbe senso.
Gli vado dietro. Lo seguo .
Va nello sgabuzzino, prende una valigia.
Si dirige verso la camera da letto, apre l’armadio e comincia a gettarci dentro le cose, alla rinfusa.
Non è da lui. Di solito ama l’ordine. Quando partiamo per le vacanze sistema tutto in modo millimetrico.
Deve essere davvero sconvolto, non l’ho mai visto così.
<Cosa fai adesso?> chiedo.
<Me ne vado>, spiega.
<Ma dove?>
<Non lo so, in albergo, credo>.
<Non ce n’è bisogno>, dico.
<Puoi restare, abbiamo tempo, tutto il tempo per organizzarci>.
Si volta, mi guarda. Ed esplode.
<Tu devi essere pazza. Pensi che io possa passare anche solo un altro giorno sotto questo tetto? Che possa magari dormire con te? Tu non ti rendi conto> dice e la voce gli si rompe.
Adesso mi ricorda molto il ragazzo di tanti anni fa.
Quello che dietro la flemma apparente, nascondeva degli eccessi molto intensi.
Lo ricordo ancora, il nostro primo bacio, ricordo che tremava e che gli ridevano gli occhi.
Ricordo quando è nato nostro figlio e lui, che di solito è così misurato, quasi si è messo a piangere.
Non l’ha fatto però.
Non ama dare sfoggio delle sue emozioni.
Non ha pianto neppure quando è morta sua madre anche se la amava di un amore intenso.
Gli vado vicino, metto le mani sulle sue braccia, quasi lo strattono.
<Lo capisci che qualsiasi cosa è meglio di questo immobilismo? Che così muoio ?> urlo.
Mette le mani sui miei polsi, mi stacca da sé.
<Lasciami andare>, prega, <ho solo voglia di stare solo>.
Gli tremano le mani.
E allora cedo.
<Non è vero niente>, confesso.
Si ferma, mi guarda dritto negli occhi.
<Ripetilo>, chiede e sembra davvero stranito.
<Mi sono inventata tutto. Stavo morendo di noia. Il quadretto di te stravaccato sul divano, semi addormentato e di me intenta a giocare a burraco sul computer, mi ha dato il voltastomaco, avevo voglia di scuoterti e allora mi sono inventata questa storia, volevo vedere come reagivi>.
<Tu non sei normale>, Riccardo scuote la testa, ha uno sguardo duro che non gli conosco.
<Cos’è, volevi vedere l’effetto che faceva?>.
Batte le mani, una contro l’altra, una sola volta.
<Ti amo e su questo non ci piove, tu e nostro figlio siete tutta la mia vita. Non vi ho mai fatto mancare niente, ti sono sempre stato fedele, sono tuo complice, qualsiasi cosa succeda sono dalla tua parte, solidale e tu invece te ne salti fuori con questa manfrina e mi dici che muori di noia, ti inventi una storia giusto per movimentare la situazione. Non posso crederci>.
Scuote di nuovo la testa.
<Volevi il brivido? Ti accontento subito. Io non sono una marionetta che puoi muovere a tuo movimento e restare in disparte a vedere l’effetto che fa. Questa pagliacciata mi ha molto deluso. Non so cosa volevi ottenere, se quanto hai detto è davvero pura invenzione o c’è qualcosa di vero, quello che è certo è che qualcosa non va e forse è meglio se a questo punto ci fermiamo un attimo e ci riflettiamo su>.
Ma cosa diavolo sta dicendo?
Non c’è nulla da mettere in forse, ma quale crisi?
Volevo solo manifestargli un mio disappunto, un mio disagio.
<Dai Riccardo non scherziamo, ripeto volevo soltanto farti saltare dal divano, è stato più forte di me>.
<Bene, a quanto pare ci sei riuscita>.
Parla, ma senza guardarmi e continua a buttare le cose in valigia alla rinfusa.
<Scusami, ti prego, non lo so cosa mi sia preso, non lo so perché ti ho detto tutte quelle cose, posso giurartelo, non c’è niente di vero, ho inventato tutto>.
<Non proprio tutto, evidentemente qualcosa che non va c’è, eccome>.
Chiude la valigia, tira la lampo. La toglie dal letto e la appoggia a terra.
<Non scherzare, ti prego, Riccardo, hai ragione tu, siamo una bellissima famiglia>.
<Che però adesso ha bisogno di una pausa, e per fortuna che Daniele è via così non gli dobbiamo nessuna spiegazione>.
Prende in mano la valigia, si dirige verso l’uscita.
<Ma dove diavolo pensi di andare?> sbotto.
<Lontano da qui, evidentemente hai ragione tu, qualcosa mi è sfuggito. Non bisogna dare le cose per scontate. Concordo. Per questo voglio guardarmi dentro e ripensare a un po’ di cose>.
Raggiunge la porta di casa, la apre, si trascina dietro la valigia.
<Riccardo io ti amo>, dico.
<Anche io>, ribatte.
<Ci sentiamo>, e si richiude la porta alle spalle, lasciandomi lì, come un’allocca.
E’ solo un attimo ma ho già nostalgia di lui, anche del suo modo di stravaccarsi sul divano.
E’ unico mio marito. Un buono, sicuramente, ma guai se gli prendono i cinque minuti. Quando si arrabbia, come tutte le persone miti, fa sul serio.
Mi sento tremare dentro.
In fondo ha detto che mi ama e lui è uno che non mente mai.
Leave a Reply